UN PIANO PER IL FUTURO: COLLETTIVIZZAZIONE E COOPERAZIONE AL POSTO DI PROPRIETÀ PRIVATA, LIBERO MERCATO, CONCORRENZA

[Contributo a cura del Circolo Gramsci, Pisa]


1. Premessa generale: una pandemia che trasformerà il mondo


La situazione creata dalla pandemia ha messo a nudo le contraddizioni e le fragilità del nostro sistema di produzione e di sviluppo, improntato alla mercificazione di ogni ambito dell’esistenza e della natura.


Più del 70% delle malattie infettive che hanno colpito gli esseri umani negli ultimi trent’anni, di cui il covid-19 è soltanto l’ultima, hanno derivazione animale. La loro insorgenza ha connessioni strutturali con i cambiamenti climatico-ambientali e con il modello socio-economico: fenomeni come il riscaldamento globale, la deforestazione, l’uso intensivo delle terre e l’espansione delle città, specialmente nei paesi in via di sviluppo, costringe molti animali selvatici a migrare, determinando maggiori opportunità per i patogeni di transitare da una specie all’altra, fino agli esseri umani. A loro volta, il contagio e la rapidissima diffusione del virus, che ha raggiunto in breve tempo la dimensione di una pandemia, sono dovuti all’altissima concentrazione di persone nelle metropoli, milioni di persone che nella maggior parte dei casi appartengono a fasce basse e medio basse della popolazione, quindi costrette ad una esposizione senza protezioni agli agenti patogeni, in condizioni igienico-sanitarie non appropriate.


Nel caso dell’Italia, la pandemia si è diffusa in modo particolare nelle zone del nord, quelle a più alta densità e concentrazione di persone nelle fabbriche e nei magazzini, così come nei mezzi di trasporto pubblici (metro, treni, pullman, bus), ma anche per la presenza di polveri e particolato nell’aria inquinata che, secondo i primi studi, favoriscono la diffusione del virus. Tutto ciò evidenzia che la produzione per la produzione, la spremitura di uomini e donne in uno sfruttamento intensivo in cui sicurezza e salute sono sacrificabili non producono sviluppo umano e civiltà, ma crescita patologica che provoca crisi non più solamente sul piano economico sociale, ma anche su quello sanitario.


Si è reso palese che paesi con un sistema diverso da quello liberal-democratico non solo hanno saputo affrontare in maniera efficace la situazione, ma hanno anche dato un contributo di aiuti disinteressati ad altri paesi più colpiti, inspirati alla solidarietà internazionale e non ad un calcolo economico-politico. I mezzi di informazione di regime, dopo i primi giorni in cui il bisogno e l’emergenza suscitavano ancora una spontanea riconoscenza per gli aiuti dalla Cina, da Cuba, dalla Russia, sono stati ben presto rimessi in riga, riallineandosi alla retorica dominante che bolla automaticamente come autoritarie e dittatoriali tutte le forme di governo che non seguono il modello capitalistico occidentale. Addirittura, il Presidente della Toscana Enrico Rossi è arrivato ad affermare che non si sarebbero dovuti accettare gli aiuti dalla Russia, il quanto si sarebbe trattato solo una mossa propagandistica del governo.


La verità che emerge e che dovremo sostenere, con argomentazioni più documentate e articolate, è che alcuni paesi a economia pianificata, o comunque non allineati alle liberal-democrazie capitalistiche, hanno gestito e stanno gestendo molto meglio l’emergenza covid-19, di quanto non sia stato capace di fare ad esempio il Regno Unito (col premier Boris Johnson stesso in terapia intensiva dopo aver sottovalutato la situazione e aver quasi auspicato una selezione naturale della popolazione), o di come stiano facendo gli Stati Uniti, dove la mancanza di un sistema sanitario pubblico sta provocando migliaia di morti in pochissimi giorni, con una sovra-rappresentazione tra le classi popolari e le minoranze etniche.


Non solo: paesi che vengono considerati “regimi”, solo perché hanno un sistema economico-sociale (almeno parzialmente) collettivizzato e pianificato, o comunque un’economia in cui lo Stato ha un ruolo preminente sul mercato a difesa della popolazione, hanno dato (o offerto) un contributo rilevante in termini di aiuto ad altri paesi, mettendo a disposizione risorse, competenze, medici e medicinali in nome della solidarietà internazionalista. Ovviamente, ci riferiamo a Cina, Cuba, Russia e Vietnam. I paesi cosiddetti amici dell’UE e Stati Uniti hanno fatto di tutto per sottrarci commesse di mascherine e di ventilatori polmonari, e cercano di sfruttare l’emergenza per poi provare a saccheggiare le risorse sociali e i beni pubblici (sanità, trasporti, servizi) messi in vendita sul mercato delle privatizzazioni allo scopo di restituire il debito contratto: sarà necessario che queste cose non vengano dimenticate.


2. Siamo tutti sulla stessa barca?


Fino a questo momento non ci sono farmaci né preventivi, né curativi del covid-19: ognuno, dunque, sul pianeta è potenzialmente esposto al virus? Ma tale potenziale esposizione non è ugualmente distribuita tra la popolazione, ma segue chiare linee di classe e di genere. Non solo perché gli appartenenti ai ceti privilegiati possono accedere ai controlli (tamponi) anche ricorrendo a laboratori privati a pagamento, mentre ci sono moltissime persone che non hanno potuto essere controllate prima che si ammalassero; ma anche perché moltissimi lavoratori e lavoratrici (anche in comparti e attività sicuramente non necessarie ed essenziali) sono stati costretti a continuare a lavorare in posti di lavoro affollati, raggiunti con mezzi di trasporto pubblici e comunque con turni in cui il distanziamento sociale è stato praticamente impossibile da mantenere. Le responsabilità di governatori e amministratori soprattutto lombardi, ma in parte anche del governo nazionale, sono tutte qui: nella subalternità ai diktat delle associazioni padronali che hanno impresso un classe a questa emergenza e alla sua gestione: le restrizioni imposte ai singoli cittadini, giustificate per impedire che si possano formare spontaneamente assembramenti rischiosi, cozzano pesantemente con le pretese aziendali e padronali di continuare a produrre, vendere, esportare mettendo a repentaglio sicurezza e salute di lavoratori e lavoratrici e dei loro familiari. Solo mobilitazioni e scioperi indetti dalle organizzazioni sindacali di base e confederali hanno fatto sì che il governo correggesse, almeno parzialmente, la linea di totale accondiscendenza a Confindustria. Tra gli altri esempi, le mobilitazioni di lavoratori dell’igiene ambientale, che hanno (in parte) ottenuto dalle aziende le protezioni per il servizio essenziale di raccolta dei rifiuti.


La situazione di emergenza è stata aggravata nel nostro paese, come in Spagna, dall’attacco prolungato e sistematico subito dalla sanità pubblica, sottoposta a tagli pesantissimi imposti prima dall’ideologia dell’efficienza del privato, poi dalle politiche di austerità e dal vincolo di bilancio (che è stato inserito nell’articolo 81 della Costituzione), finalizzati ufficialmente al rientro dal debito pubblico. Questo ammonta attualmente a quasi 2mila mld e mezzo di euro che, in rapporto ad un PIL prima stagnante e adesso in decisa caduta, dà un rapporto che dal 135% circa salirà a quasi il 160%. L’obiettivo imposto dall’Unione Europea all’Italia di dimezzare il rapporto debito/PIL nei prossimi anni diverrà ancora più irraggiungibile, con una crescita già irrisoria prima, e con la pesante crisi economico-sociale come si va profilando. Non dobbiamo però dimenticare che il nostro avanzo primario, ossia la differenza tra le entrate e le uscite dello Stato al netto della spesa per interessi sul debito, è sempre stato positivo dal 1992 a oggi (con la sola eccezione del 2009). Il problema è che siamo costretti a pagare tra i 60 e i 70 mld di euro, ossia tra il 3,5% e quasi il 4% del PIL, ogni anno per gli interessi sui buoni tesoro venduti sui “liberi mercati” della speculazione interna e internazionale.
Per ottenere questo infelice risultato, i governi nazionali allineati alle politiche dell’UE e della BCE hanno adottato nel corso degli ultimi anni tagli devastanti allo Stato sociale (sanità, pensioni, istruzione, università e ricerca): insomma, tutto quello che oggi sarebbe risultato necessario per affrontare in maniera migliore la pandemia e la crisi economico-sociale conseguente. Come dimostrano le resistenze a adottare una politica di socializzazione del debito a livello europeo, e il persistente tabù che proibisce alla BCE di fare ciò che le altre grandi banche centrali fanno, ossia emettere moneta per acquistare direttamente il debito sovrano degli Stati membri, siamo di fronte ad un problema strutturale: i trattati  fondativi dell’Unione Europea e della moneta unica sono costruiti per determinare un mercato unico semi-coloniale in cui i vantaggi, derivanti dalla forza internazionale dell’euro per l’acquisto di materie prime ed energia, sono stati (e saranno) pagati a caro prezzo dai proletari dei vari paesi, ma in particolare da quelli dei paesi più fragili finanziariamente e fiscalmente, con un apparato produttivo frastagliato e principalmente incentrato sulle piccole-medie aziende, da cui deriva una minore produttività e un PIL più basso e incerto. Inoltre, la presenza nel sistema dell’euro dei paesi del Sud Europa, con le loro debolezze strutturali, mantiene il tasso di cambio dell’euro con le altre valute ad un livello molto più basso di quello che la Germania avrebbe sopportato con una sua moneta nazionale, e questo fa guadagnare competitività internazionale al capitalismo tedesco, a svantaggio degli altri paesi.


3. Un piano per la collettivizzazione dei settori strategici: punti programmatici e proposte politiche


Non è pensabile che si possa uscire dalla situazione attuale, che determinerà una crisi economico-sociale di enorme portata al momento persino difficile da immaginare, semplicemente aspettando il “ritorno alla normalità” ovvero mantenendo immutate struttura economico-finanziaria e relazioni socio-economiche attuali.


Persino Mario Draghi, “l’uomo del sistema” che ha gestito la BCE nella tempesta perfetta della crisi finanziaria scoppiata nel 2008, ha compreso che occorre sostenere il libero mercato con un forte puntello di garanzia da parte degli Stati sovrani. Il keynesismo garantista di Draghi (non riformista: qui lo stato acquista un ruolo di garante presso il sistema bancario per finanziare le imprese, non certo di intervento diretto nell’economia né di controllo sulla produzione di moneta) è una forma di correzione (almeno temporanea) del liberismo puro predicato in questi decenni. Ciò significa che si è aperto uno scontro politico-economico tra il settore della classe dominante che punta prioritariamente alla rendita speculativo-finanziaria (incarnato dalla Lagarde), col rischio di nuovi crolli bancari a breve-medio periodo, e il settore della classe dominante che intende invece riattivare la capacità produttiva per la valorizzazione del capitale e l’estrazione del profitto dalla forza-lavoro.


La ricetta di Draghi (che già qualcuno, anche nella attuale maggioranza, pensa possa ricoprire il ruolo di futuro presidente del consiglio) resta confinata nel recinto del sistema capitalistico, senza neppure la prospettiva del keynesismo riformista o interventista: ridefinirà i rapporti di forza all’interno della borghesia, a sostegno delle componenti nazionali e internazionali meno legate alla rendita finanziaria.


I provvedimenti che sono stati presi dal governo indicano un orientamento per lo più corretto, ma moderato e comunque provvisorio: assunzione di medici e infermieri, cassa integrazione anche in deroga per lavoratori e lavoratrici (degli appalti, in particolare) fermi per la sospensione delle attività, interventi a sostegno dei lavoratori autonomi e dei co.co.co, proposte di un “reddito di emergenza” e di un fondo di solidarietà progressivo (che pareva condiviso nel governo e dalle principali sostenitori della maggioranza, ma che invece sembra piuttosto contrastato all’interno del Partito Democratico e non gradito al democristianissimo Conte).Più che provvedimenti anche adeguati, ma che restano estemporanei e frammentari, ciò di cui il paese ha urgente necessità è un vero e proprio piano di ricostruzione delle attività produttive e distributive, nonché di riconversione sociale e ecologica della produzione. Occorre ripensare radicalmente il sistema, per consentire di affrontare in sicurezza il riavvio delle relazioni sociali (innanzitutto quelle produttive e lavorative) e dei trasporti, mettendo al centro dell’azione l’universalismo dei diritti (alla salute, alla previdenza, al reddito, all’occupazione, all’istruzione, alla casa, al trasporto pubblico). Un simile ripensamento di sistema deve fondarsi su un vero e democratico ruolo attivo del settore pubblico nell’economia, che punti alla nazionalizzazione (e alla socializzazione) dei settori strategici della produzione, della distribuzione e del credito oltre che all’ovvio e necessario rafforzamento dei servizi pubblici tramite investimenti massicci, per costruire ospedali, riattivare presidi territoriali, pronto soccorso, restituire posti letto, implementare e rafforzare la medicina sociale e territoriale. Per raggiungere questi obiettivi, occorre che lo Stato riacquisti sovranità in ambito monetario e fiscale, che si ristrutturi e rinegozi il debito pubblico accumulato a causa della spesa per interessi, che si ritorni ad una tassazione equa perché fortemente progressiva sia cui redditi che sui patrimoni, che si faccia una lotta dura contro la grande evasione fiscale e contro i paradisi fiscali, a partire da quelli europei, che si ponga un freno alla libera circolazione dei capitali a partire da quelli speculativi.


Risorse aggiuntive per finanziare la spesa sociale straordinaria e ordinaria possono e devono essere recuperate dalla riduzione drastica delle spese militari annue, a partire dal ritiro di tutti i soldati impegnati nelle missioni militari all’estero e dall’immediata disdetta dei contratti di acquisto degli F35, e dall’abbandono di inutili, dispendiose e nocive opere pubbliche, come il TAV.


Occorre ripensare il modello strutturale (inteso anche come edifici) e sociale della sanità: oggi, sia per criteri costruttivi che per scelte politiche, come in Toscana, gli ospedali sono stati costruiti privilegiando macrostrutture a scapito dei piccoli ospedali diffusi sul territorio, che si sono rivelate meno adatte al contenimento dell’epidemia.


Anzi, in molti casi ne sono divenuti la principale fonte di diffusione. Questa situazione è ancora più critica considerando che, in assenza a breve di coperture vaccinali estese, l’epidemia secondo modellistiche scientifiche è prevista ripetersi in almeno due-tre nuove ondate. Per questi motivi è necessario chiedere da subito la riapertura di strutture ospedaliere territoriali direttamente gestite dal sistema sanitario regionale e nazionale. Nella nostra regione qualche timido tentativo di reperire strutture per ospitare esclusivamente malati covid è stato fatto, ma gli esiti e soprattutto la gestione sembrano del tutto controversi. Senza addentrarsi troppo nei dettagli, è evidente che il coinvolgimento a volte scoordinato del privato sociale non è di aiuto: anzi, al contrario potrebbe palesare anche in un contesto così drammatico, la volontà di mantenere rendite di posizione, o peggio situazioni clientelari.


È quindi necessario potenziare i servizi territoriali, anche requisendo laboratori e cliniche private, o almeno inquadrarli con i criteri del settore pubblico, e mettere da parte il cosiddetto privato sociale.


4. Un piano per l’occupazione, i salari, le pensioni, garanzie sociali e diritti per lavoratori e lavoratrici: riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario e assunzioni di personale per differenziare i turni di lavoro e servizio


In queste settimane in molti comparti dell’amministrazione pubblica e privata si è diffusa la forma del lavoro da casa, in remoto, a distanza, agile (smart working): questo tipo di lavoro predispone molti lavoratori e lavoratrici ad una forma di lavoro che, se non regolamentato, può diventare una vera e propria forma di asservimento.


Occorrerà che sul piano sindacale, ma anche sul piano politico, si vigili perché i carichi di lavoro siano rimodulati (intanto sulla base delle norme per la sicurezza dei lavoratori con videoterminali), con l’individuazione di orari definiti e con la garanzia del diritto alla disconnessione; ma, soprattutto, occorrerà controllare che questa forma di lavoro non divenga legittimazione e giustificazione per un ridimensionamento dell’occupazione, che colpirebbe innanzitutto precari e contrattisti a tempo determinato, stagionale, interinale, a progetto.


Occorrerà rimettere al centro dell’attenzione politica e sindacale la questione salariale. Nel corso degli ultimi trent’anni la quota di PIL destinata a pagare il lavoro si è drasticamente ridotta, a vantaggio dei profitti aziendali. I bassi salari sono il risultato di varie tendenze, che vanno una ad una invertite: la forte precarizzazione e frammentazione delle forme contrattuali, risultato di decenni di “riforme” del mercato del lavoro tutte sbilanciate a favore delle imprese e delle necessità di risparmio della pubblica amministrazione: la proliferazione del sistema degli appalti e dei subappalti, nel quadro della terziarizzazione dell’industria e della privatizzazione dello Stato sociale; l’uso strumentale e razzista della forza-lavoro migrante costretta ad accettare retribuzioni e condizioni di semi-schiavitù a causa di norme iper-restrittive sui visti di ingresso e sui permessi di soggiorno.


La nostra proposta di fase è quella di una riduzione dell’orario di lavoro, a parità di salario, contestualmente ad un piano di assunzioni che coprano le esigenze delle aziende e delle amministrazioni pubbliche: in questo modo si potranno riorganizzare i turni e le presenze nelle unità produttive, distributive, amministrative in modo da garantire spazi e distanziamenti adeguati; inoltre, questa riorganizzazione permetterà di garantire a tutte e tutti di trovare un impiego che produca un adeguato reddito per ognuno, senza che queste “nuove” forme di lavoro, allargate anche a chi tradizionalmente non vi era stato coinvolto, e quindi abituato senza la fretta dell’emergenza, si trasformino in un’invasione della vita privata e di una sostanziale corrispondenza tra tempo di vita e tempo di lavoro.


Non possiamo sottovalutare le ripercussioni che può avere a livello sociale, ma anche familiare e psicologico, l’interruzione della distanza – spaziale e temporale – delle diverse attività, amplificando problemi già esistenti come la difficoltà di sindacalizzazione dei lavoratori (complici certamente le differenti situazioni contrattuali) e la disparità di genere che vede, spesso, affidare il completo lavoro di cura alle donne: conciliare questo con l’attività lavorativa può diventare, all’interno dell’ambiente domestico, assolutamente impossibile.


Non possiamo neppure sottovalutare le conseguenze della crisi (attuale e prevedibilmente futura) sulla pelle delle moltissime persone che, già prima dell’emergenza sanitaria, vivevano vicini alla soglia di povertà, arrabattandosi intorno al minimo necessario, con lavori occasionali e – spesso – al nero, tutte condizioni di disagio sociale che facevano parte del cosiddetto “sommerso”, prima, e che non vengono raggiunte dalle forme di assistenza, oggi.


Il Governo ha infatti scelto di dare una risposta tutta istituzionale, e spesso non sufficiente, a situazioni esterne al raggio delle istituzioni: difficoltà linguistiche, invisibilità sostanziale, muri culturali e perfino tagli di finanziamenti che negli anni hanno impedito agli organi competenti di raggiungere una quantità infinita di persone, che sono oggi le stesse che – per i medesimi motivi – non possono accedere alle diverse forme di sussidio e assistenza previsti. È per questo che si fa oggi più urgente che mai la richiesta di un reddito universale per tutti e tutte, che possa dare una tregua alle situazioni più emergenziali e che renda lo Stato il garante del diritto alla vita e ad un’esistenza dignitosa, riprendendosi una responsabilità troppo spessa delegata alle associazioni di volontariato e del terzo settore che svolgono un lavoro apprezzabile, ma per definizione resistenziale e residuale.


Dovrà essere lo Stato, invece, a correggere gli errori con cui è stato impostato l’attuale Reddito di Cittadinanza, tramite una scelta che possa far uscire le persone dal ricatto “di un lavoro” per spostarsi, con dignità, al riconoscimento del ruolo sociale e di emancipazione personale “del Lavoro”. Maggiore respiro economico vuol dire meno pressione sulle famiglie, potenziale allentamento delle troppe situazioni di difficoltà e di violenza domestica in cui, per esempio, la detenzione di un solo salario – specie se insufficiente – impedisce nei fatti di interrompere il circuito della brutalità. “Restare a casa”, palesa oggi tutti i problemi per coloro ai quali queste parole suonano come una condanna e non una speranza, per altro tutta borghese, in quanto molti (troppi) non hanno neppure una casa dove rimanere. Dobbiamo pretendere che sia lo Stato ad occuparsi oggi di queste difficoltà e come comunisti vigiliamo e agiamo perché si eviti l’inasprimento delle ingiustizie sociali, mostrando il fallimento conclamato di questo sistema economico-sociale e operando per abolire il presente modo di produzione e gestione fondato sullo sfruttamento e sul profitto.


È per questo che si fa oggi più urgente che mai la richiesta di un reddito universale per tutti e tutte, che possa dare una tregua alle situazioni più emergenziali e che renda lo Stato il garante del diritto alla vita e ad un’esistenza dignitosa, riprendendosi una responsabilità troppo spessa delegata alle associazioni di volontariato e del terzo settore che svolgono un lavoro apprezzabile, ma per definizione resistenziale e residuale.


Dovrà essere lo Stato, invece, a correggere gli errori con cui è stato impostato l’attuale Reddito di Cittadinanza, tramite una scelta che possa far uscire le persone dal ricatto “di un lavoro” per spostarsi, con dignità, al riconoscimento del ruolo sociale e di emancipazione personale “del Lavoro”. Maggiore respiro economico vuol dire meno pressione sulle famiglie, potenziale allentamento delle troppe situazioni di difficoltà e di violenza domestica in cui, per esempio, la detenzione di un solo salario – specie se insufficiente – impedisce nei fatti di interrompere il circuito della brutalità.
“Restare a casa”, palesa oggi tutti i problemi per coloro ai quali queste parole suonano come una condanna e non una speranza, per altro tutta borghese, in quanto molti (troppi) non hanno neppure una casa dove rimanere. Dobbiamo pretendere che sia lo Stato ad occuparsi oggi di queste difficoltà e come comunisti vigiliamo e agiamo perché si eviti l’inasprimento delle ingiustizie sociali, mostrando il fallimento conclamato di questo sistema economico-sociale e operando per abolire il presente modo di produzione e gestione fondato sullo sfruttamento e sul profitto.

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