L’impotenza politica in Francia (una lezione per l’Italia)

[Un articolo di Serge Halimi per Le Monte Diplomatique che, parlando della Francia, dice molto anche all’Italia. Le elezioni europee, intanto, sono dietro l’angolo]

Il tempo delle rivolte. Le elezioni municipali di marzo e quelle europee di maggio permetteranno di testare la popolarità dei socialisti francesi, a due anni dalle elezioni di François Hollande all’Eliseo. Il giudizio si annuncia severo, vista la grave situazione economica e la mancanza di ambizioni da parte del potere.

A prima vista il contrasto è totale. In Germania, le due formazioni politiche principali, l’Unione cristiano-democratica (CDU) e il Partito Socialdemocratico (SPD) si sono spartite i ministeri dopo essersi (cortesemente) combattute davanti agli elettori. In Francia, destra e sinistra si lanciano invettive tali da farle sembrare divise su tutto: il livello della fiscalità, la protezione sociale, la politica dell’immigrazione. Eppure, mentre sembra delinearsi per l’Eliseo la prospettiva di una partita di rivincita, della quale i media già preparano la sceneggiatura, Nicolas Sarkosy e François Hollande potrebbero ispirarsi alla franchezza di Angela Merkel e Sigmar Gabriel. E insieme formare un governo che, dettagli a parte, proseguirebbe l’orientamento dominante da trent’anni a questa parte.

Nel 2006, in un saggio opportunamente intitolato Devoirs de Vérité, Hollande aveva già ammesso la convergenza tra socialisti e destra liberista in materia di politica economica, finanziaria, monetaria, commerciale, industriale, europea. Egli scriveva “E’ stato Mitterrand -con Pierre Bérégovoy- a deregolamentare l’economia francese e ad aprirla ad ogni forma di concorrenza. E Jacques Delors, a Parigi e a Bruxelles è stato uno dei fondatori dell’Europa monetaria con le evoluzioni politiche che essa implicava sul piano delle politiche macroeconomiche. E’ stato Lionel Jospin ad allearsi con i gruppi industriale più innovatori, fino ad aprile il capitale di imprese pubbliche, come gli fu rimproverato. Smettiamo dunque di indossare orpelli ideologici che non ingannano nessuno”.

Otto anni dopo, che altro dire? Ma è proprio la mancata presa sugli orientamenti essenziali del paese a spiegare la disaffezione dei francesi verso gli strepiti e i furori della loro classe politica, mentre due correnti rivali quanto complici monopolizzano la scena nazionale. Infatti anche se i socialisti e la destra detengono il 92,2% dei seggi all’assemblea nazionale e l’89% dei seggi al senato, le decisioni governative provocano una profonda ripulsa, e al tempo stesso l’opposizione parlamentare non suscita la minima speranza.

Poco importa in apparenza: il regime tiene, puntellato da istituzioni che conferiscono al Presidente della Repubblica tutti i poteri, compreso quello di rinviare sine die l’applicazione di un dispositivo fiscale (l’ecotassa) votato dalla quasi totalità dei parlamentari. Ma le rivolte si moltiplicano.

Vi contribuisce il discredito dei responsabili politici, alimentato dalla loro incapacità di proporre al paese una qualunque prospettiva. La mediocrità della loro ambizione personale non migliora la situazione, tanto più che la stampa diffonde e amplifica strepiti e litigi. Le “indiscrezioni” velenose attribuite a Sarkosy quando parla dei suoi “amici” sono un filone giornalistico ancor più succoso del concorso di maldicenze socialiste contro il Primo Ministro Jean-Marc Ayrault. Un clima simile alimenta un neo-pujaidismo che si allarga sempre più al margine delle formazioni tradizionali, con scopi intermittenti di collera e brontolii continui nelle reti sociali. Imprenditori “piccioni”, folle tradizionaliste della manif pour tous, “berretti rossi” bretoni -tutto questo in meno di 18 mesi!

La spaccatura tra politici ed elettori ha a che vedere da una parte con l’americanizzazione della vita politica francese: i partiti principali sono ormai semplici macchina elettorali, cartelli di notabili locali alimentati solo dalla linfa di una popolazione anziana. E’ evidente che le nuove leve non si presentano a frotte, perché gli strumenti di un’altra politica sembrano essere stati archiviati per sempre. Protestare contro l’insegnamento di genere a scuola o opporsi ad un pedaggio stradale non cambia nulla, né nelle risorse assegnate all’educazione nazionale né nelle dimensioni dell’evasione fiscale, ma almeno è un occasione per ritrovarsi insieme e provare la soddisfazione di far cedere un ministro. Una settimana dopo, l’amarezza riprende piede, perché è evidente che non è cambiato niente di essenziale, dal momento che niente di essenziale dipende più da questo o quel ministro.

O dall’Eliseo. A un certo punto Hollande ha scelto di mantenere la direzione che aveva invece promesso di cambiare. Insomma, la palude invece dell’audacia. Il resto è legato al teatro o , per meglio dire, agli automatismi della politica. Non appena la sinistra arriva al potere, la destra la accusa di minare l’identità nazionale, accogliere tutti i migranti ed estorcere al Paese somme enormi sotto forma di tasse. La stessa destra poi, quando torna al potere, si lamenta quando le si rimprovera quando le si rimprovera di sostenere i privilegiati. E ricorda ai suoi concorrenti tornati rivoluzionari (quasi) che loro incerte occasioni hanno attuato una politica ancora più liberista: “insomma, si adirò François Fillon, allora Primo Ministro, durante un dibattito con la dirigente socialista Martine Aubry nel febbraio 2012, mi ferisce sentir dire che abbiamo favorito i ricchi. Quando lei era ministro [tra il 1997 e il 2000], il capitale era tassato 10 punti meno di adesso. Quando lei era ministro le imposte sul reddito furono ridotte. Noi tassiamo il capitale, noi abbiamo preso decisioni che voi non avete mai osato prendere sulle stock-option, sui profitti dei traiders, sulle pensioni di lusso. (..) Nel 2000 Fabius [allora ministro dell’economia] aveva abbassato la fiscalità su una parte delle stock-option”.

Una stampa di destra delirante. Dieci anni prima, Laurent Fabius rimproverava a un ministro degli affari sociali di nome François Fillon di non aumentare a sufficienza il salario minimo. E quest’ultimo gli rispondeva subito. “Nel 1999, voi non avete aumentato lo smic [il salario legale minimo orario, ndt]. Nel 2000 non avete aumentato lo smic. Nel 2001 l’avete aumentato di un misero 0,29%.” Nel 2014 non ci sarà nemmeno questo misero aumento… Stessi attori, stessi discorsi, stessa logica: per prevedere quel che sarà, basta avere una buona memoria. Alla scadenza del mandato di Hollande, senza dubbio il “mondo della finanza” tornerà ad essere il “grande avversario” dei socialisti francesi. Ma oggi, ed è un ministro ad ammetterlo, Bercy [così dal quartiere nel quale ubicato, viene definito il ministero dell’economia e delle finanze, ndt] è il rifugio delle lobby bancarie.

Tuttavia, la destra sarebbe folle se in questo momento ammettesse che i socialisti non fanno ceh riprendere gli orientamenti di Sarkozy e Fillon, a loro volta imposti da trattati europei che gli uni e gli altri hanno negoziato e approvato. Di conseguenza, da 18 mesi, la Francia ha paura, le prigioni si svuotano, gli immigrati proliferano, i ricchi fuggono. Da Le figaro [27 novembre 2012] si apprende che Hollande ha provocato il “più grande esodo di forze vive dall’abolizione dell’eitto di Nantes da parte di Luigi XIV”. E si scopre anche (9 ottobre 2013) che “il governo Ayrault ha deciso di affidare diversi ragazzini all’assistenza sociale” così da “«formattarli» in modo tale che imparino ad aspettare tutto dallo Stato e diventino, ad vitam aeternam, degli assistiti”. E infine da un’editoriale del 31 dicembre 2013, si viene a sapere che “come i bravi allievi, spesso presi in giro dai compagni, l’uomo bianco ed eterosessuale potrebbe ben presto essere obbligato a nascondersi, nel nostro paese”. Cessate in fuoco!

Immersa in questo bagnomaria la frazione più vivace della destra si rimprovera amaramente la mancanza di decisione quando aveva in mano le redini del potere. E giura che non ripeterà l’errore, quando le riprenderà. Un altro scenario noto, perché quello degli anni 83-86 davanti all’ascesa del Fronte Nazionale. All’epoca, la svolta neo-liberista dei socialista dispiacque molto a una parte del loro elettorato popolare; interpretando la svolta come l’ammissione che una politica di sinistra aveva fatto precipitare il paese nell’abisso, la destra pretese una netta virata verso la società di mercato; allora i socialisti fustigarono la radicalizzazione dei loro avversari , non potendo difendere il proprio (magro) bilancio economico e sociale, fecero ricorso al tema popolare “aiuto, torna la destra!”.

I propositi xenofobi di certi capoccia conservatori, il tumulto scatenato dai loro tentativi di allearsi con l’estrema destra fecero il resto, saturando lo spazio pubblico. Intanto -ma con più discrezione-, le imprese delocalizzavano e le diseguaglianze aumentavano.

Domani, la terapie della Shock…in un’intervista a Les Echos, Jean-François Copé, presidente del Unione per un movimento popolare (UMP), ha annunciato il programma del suo partito: “l’abolizione delle 35 ore, una massiccia diminuzione delle tasse, abbinata ad una diminuzione della spesa pubblica…(…) E’ inammissibile che il regime dei precari continui a costare un miliardo! E abbiamo bisogno di tutte queste catene televisive pubbliche? Un altro esempio: noi siamo l’unico paese d’ Europa che con il servizio sanitario pubblico copre il 100% delle spese mediche degli stessi clandestini. (..) La spesa pubblica rappresenta oggi il 57% del PIL. Bisognerà tornare alla media della zona EURO, intorno al 50% del PIL (..) Questo rappresenterebbe un risparmio di 130 miliardi da conseguire su più anni.” Copé sta cercando di far passare la politica dei socialisti per una politica di sinistra?

Ayrault non gli facilita il compito, perché ha appena promesso che l’intero mandato presidenziale sarà caratterizzato dall’austerità: “nel 2014 realizzeremo un risparmio di 15 miliardi, ma dovremo continuare con lo stesso ritmo nel 2015, nel 2016, nel 2017”. La spesa pubblica era salita in media dell’1,6% all’anno durante il quinquennio di Sarkozy. I socialisti si sono dati l’obiettivo di limitare la loro crescita allo…0,2% nei prossimi tre anni. Possono forse fare altrimenti, visto che le autorità europee di tutela della Francia non mancano mai di ricordarle che il “risanamento dei conti pubblici non può essere realizzato con l’aumento delle imposte?”

Non è meno fosco il quadro sul fronte della produzione e dell’occupazione. Il governo intende ristabilire la salute e la competitività internazionale delle imprese nazionali in un mercato libero e non falsato. Come? Da una parte, favorendo “una politica volontaristica per l’alleggerimento del costo del lavoro” (Hollande). D’altra parte, imponendo all’insieme della popolazione un aumento dell’imposta sul valore aggiunto (TVA) destinata a finanziare un credito d’imposta per la competitività e l’occupazione (CICE) di enorme portata e distribuito con generosità a tutte le imprese, senza richiedere contropartite in termini di assunzioni. Insomma salari inferiori e più tassati aiuteranno di certo i datori di lavoro. Compresi i giganti della distribuzione, che non devono far fronte ad alcune concorrenza internazionale e che si piegano sotto il peso dei loro profitti.

Certo è inutile rimproverare a questa politica il suo carattere poco socialista, ma almeno si può sottolineare che essa non realizza gli obiettivi che si è data. Non potendo svalutare la moneta, la Francia cerca di migliorare la competitività grazie ad una politica di austerità di bilancio e riduzione del “costo del lavoro”- cioè dei salari. Ma il “miglioramento dell’offerta” faticosamente ottenuto a danno del potere d’acquisto delle famiglie, si perde subito a causa della rivalutazione dell’euro rispetto all’insieme delle altre monete (il 6,4% nel 2013). In ogni caso bisogna essere pazzi per immaginare che un paese che ha una crescita nulla, una domanda interna depressa e molti dei principali clienti europei in via di pauperizzazione, possa “invertire stabilmente la curva della disoccupazione” quando in più taglia la spesa pubblica. Una scommessa di questo tipo fu tentata già agli inizi degli anni ’30 da Herbert Hoover negli Stati Uniti e da Pierre Laval in Francia -con il successo che tutti conoscono.

A partire dal 1983, la sinistra si è arresa in materia economica e ha rotto il legale con la propria storia rivoluzionaria, tentando di sostituirlo con un’ utopia Europea, universalista e antirazzista, un misto di Erasmus e di “giù le mani dal mio amico” declinato da una camarilla di artisti e giornalisti. Attualmente, queste leve non funzionano più; suonerebbero false. Con Hollande, almeno, nessun trucco, nessuna speranza, nient’altro che un discorso da contabile oscillante tra le attese del proprio elettorato che ha creduto -per l’ultima volta?- che con i socialisti “il cambiamento è adesso” e le esigenze dei cerberi finanziari, dovendo continuamente convincerli che sta portando avanti “una politica credibile” perché “qualunque segno di debolezza sarebbe punito”. Ma quando l’unico progresso atteso consiste nello spendere meno della destra la sinistra è morta.

Il Fronte nazionale si avvantaggia di questa assenza di speranza. Da questo partito nessuno si aspetta che migliori uno stato di cose che si propone di fare esplodere. Ma la rivendicata estraneità al sistema, il volontarismo, il carattere radicale dei propositi, ne rendono attraente l’offerta politica. Anche sulle questioni europee. Dunque, non è un caso che un ex ministro di destra e vice-presidente dell’UMP, noto per l’ambizione e la cura della messa in scena, a sua volta si sia preso delle libertà con il consenso di Bruxelles. Proponendo di riportare l’Europa utile a un “nocciolo duro” di otto membri “che comprenda Francia, Germania, i paesi del Benelux, Italia, senza dubbio Spagna e Portogallo, ma non molto di più” “con il Regno Unito da un lato, i paesi dell’Europa centrale dall’altro, ha precisato Laurent Wauquiez, non si riesce più a far andare avanti l’Europa..(..) Ci sono paesi troppo diversi, con regole sociali diverse.” La stessa osservazione varrebbe per l’euro, camicia uniforme di economie eterogenee.

Combattere o tradire”. La questione della moneta unica divide la sinistra anticapitalista, ma non è oggetto di un vero dibattito tra i socialisti. Eppure, anche nelle loro fila, si fa strada talvolta il desiderio di ritrovare una via d’uscita, una sovranità, una speranza. Poco prima di diventare ministro, Benoit Hamon riassumeva in questo modo il “dilemma della sinistra: combattere o tradire”. Il suo governo non combatte.

Gli si può rimproverare questo, prima ancora degli insuccessi. Una squadra più pugnace avrebbe affrontato difficoltà enormi: un’Europa in cui le forze progressiste sono deboli, scoraggiate, e le norme liberiste e monetariste sono sempre più stringenti; movimenti sociali che non riescono a uscire dal limbo, tanto più che non hanno alcuna forza politica influente a incoraggiarli; un tasso di sindacalizzazione abissale (in Francia il 7,6%); socialisti europei che governano o a destra o con la destra i oltre la metà dei paesi dell’Unione. Eppure, ormai, sperare che i dirigenti degli altri paesi si ravvedano e prendano coscienza dei rischi economici e democratici del corso “austeritario” che hanno imposto, è come attendere l’arrivo del Messia. E scrutare tutti gli “smottamenti” delle forze conservatrici per poterle accusare di “fare il gioco dell’estrema destra” equivale ad accettare che quest’ultima diventi a poco a poca padrona del gioco.

In questo periodo, mentre il fatalismo e l’attesa di un’inversione di rotta nella corrente dominante ritardano il lavoro della riconquista intellettuale e quello della mobilitazione politica, non c’è altra soluzione, in definitiva, che la costruzione di una colazione sociale fiduciosa e vincente. Ardita malgrado tutto perché, come ha ricordato Glenn Grieenwald, il quale si è assunto il rischio di pubblicare le rivelazioni di Edward Snowden sullo spionaggio statunitense, la storia mostra che “il coraggio è contagioso”.

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